
Potremmo paragonare la sua storia a quella del Vecchio e il Mare di Hemingway; lui è un pescatore; non ha lottato con un pescecane ma lo ha fatto sempre nella vita, arrivando a scavare nelle miniere del glorioso Canada che dava lavoro a tanti migranti della povera Italia degli anni ‘50. Oggi, Domenico Ottaviano, in arte Mimì, con il soprannome del nonno Battistone (si chiamava Battista, era grande e grosso) continua, come quando era un giovanotto, ad arrampicarsi su per le antenne del suo trabucco, per scrutare le limpide acque sottostanti e intrappolare l’ennesimo branco di cefali.
La prima volta ci salì a sei anni. Non di sua volontà. Fu costretto ad imparare presto il mestiere perché dodici bocche, la sua e quella degli altri undici fratelli e sorelle, dovevano essere sfamate.
Il trabucco era di Carlo, suo padre, ed uno dei pescatori che lavorava sotto il suo occhio vigile, lo prese, se lo mise in spalla e lo portò sul pennone più alto. Poi lo lasciò là, e gli disse di scendere se ne era capace. Ne fu capace. Da allora non smetterà mai di andarci.
Mimì è l’ultimo vero costruttore di trabucchi di Peschici. Figlio, nipote e pronipote di trabucchista. Secondo il ricercatore abruzzese, Pietro Cupido, Giovanni Battista Ottaviano, il nonno di Mimì, fu uno dei fautori del trabucco garganico. A suo parere, infatti, il trabucco è stato importato dall’Abruzzo dove la tecnica di pesca era già ampiamente diffusa e conosciuta (ne ha parlato persino D’Annunzio).
Il legame che tiene uniti gli Ottaviano al trabucco garganico è particolarmente stretto. Il primo trabucco sulle coste del promontorio venne abbozzato dagli stessi abruzzesi per conto di un pastore peschiciano nell’agro di Lesina: Matteo Biscotti.
Gli Ottaviano erano maestri d’ascia, e fornivano ai cugini della regione vicina, i mastelli di legno per il trasporto del pesce, ed erano amici fidati del Biscotti. Battista non ne fu dunque il costruttore, ma il supervisore, il capo pesca.
I primi trabucchi a Peschici arrivano nel 1926 e ovviamente ce li portano loro, con la collaborazione di Matteo Fasanella, che commerciavano scapece (pesce fritto e sotto sale) con gli stessi abruzzesi. In quegli anni i Battistoni edificarono e spostarono almeno due terzi dei trabucchi di Peschici: a Montepucci, uno a Rodi Garganico – per battere sul tempo e intrappolare prima i branchi di cefali provenienti dai laghi – allo Scandrone, alla Grotta delle Travi, a Sfinale, e a San Nicola, l’unico ancora in mano alla famiglia, ma anche fuori dal Promontorio: a Molfetta e finanche in Liguria e a Livorno.
Il trabucco portò ricchezza ai pescatori per almeno trent’anni. Poi cominciò un lento e rovinoso declino che ne condusse molti alla scomparsa.
«Erano tempi duri! Con i miei fratelli, quando eravamo al trabucco di Sfinale, con l’asino ci avviavamo alle 4 di pomeriggio per arrivare a Peschici alle 8 di sera! Quando prendevamo poco pesce, 10-15 chili, eravamo felici, perché in tre quarti d’ora a piedi arrivavamo in paese. E poi dovevamo scendere alla Marina per consegnare il pescato alla cooperativa per poi fare ritorno in paese. Una sfacchinata!».
Peschici era molto lontana da quella di oggi, con le spiagge affollate e una costa schiacciata dal peso del cemento e da una filosofia dell’accoglienza ricettiva sbagliata. La prima fonte di sostentamento era l’agricoltura, la pesca stessa era solo un fattore marginale; non disponendo di un porticciolo, le imbarcazioni erano poche e senza motore. L’unico avamposto sicuro era dunque il trabucco, il ragno gigante fatto di travi, funi e reti che sfidava le imponenti ondate della tramontana, e che spesso non subiva nemmeno un graffio.
Non così nel 1940. Mimì aveva appena 8 anni e solo due anni prima aveva preso dimestichezza, salendo sull’antenna. Era la notte di San Silvestro. Il trabucco quello di San Nicola, e il giovanotto se ne stava rannicchiato con suo padre, Carlino, nella casupola orientaleggiante che la salsedine, giorno per giorno, consumava. Le ondate di quella tempesta infernale picchiavano contro le mura a pochi metri dal mare. Fu una notte insonne, che si chiuse con un enorme boato. I due si precipitarono fuori; appena in tempo, per vedere gli ultimi pali spezzarsi e piegarsi a quella violenza che in pochi minuti aveva tolto il sostentamento ad una famiglia numerosa e in tempo di guerra.
Il trabucco venne ricostruito, ricucita la rete, ricomposto l’equipaggio di quella nave senza vele nè timone. Nel 1952 il lavoro era veramente poco, insufficiente a sfamare tutti. Il pesce, per la pesca intensiva, cominciava a scarseggiare. Così, Mimì, prese la sua valigia di cartone e partì, alla volta del Canada, a cercar fortuna. A San Nicola rimase il padre, un uomo grande e grosso che già viveva bene col suo lavoro di falegname, e che del trabucco aveva fatto la sua grande passione. «Ho lavorato come un mulo. Prima in miniera, il mio numero era il 18 (non avevo più un nome!), da dove sono scappato dopo aver visto la morte di un mio collega, garganico anche lui; dopo in una fabbrica di falegnameria, dove imparai il mestiere di mio padre».
Mimì ha trascorso quasi un ventennio al gelido clima nordamericano. Nelle fredde sere invernali, a sentire la moglie, scarabocchiava trabucchi dappertutto, e con la nascita del primo figlio, Carlo, decise di rifare i bagagli e tornarsene sui tavolacci di quel primitivo modo di pescare che è poi diventato la sua filosofia di vita. Al suo ritorno trovò il vecchio padre avanti con gli anni, e il trabucco con una sola antenna, un’altra mareggiata aveva portato via le altre. La solitudine del padre e la mancanza di finanze ne impedirono la riparazione. Ma il buon Mimì insistette per la sua messa a nuovo. In Canada aveva guadagnato abbastanza e il trabucco tornò a nascere.
Negli stessi anni, i primi turisti cominciavano ad affacciarsi sul Promontorio vergine, non ancora immolato agli incendi e alle devastazioni dell’uomo, capace, oggi, di permettere la costruzione di complessi monumentali in zone paludose a grandissima valenza ambientale, in zona A del Parco Nazionale, come accaduto con qualche grande e noto albergo, e Mimì non perse tempo.
Nei pressi del ragno di legno suo nonno aveva costruito due casupole, lui le ristrutturò e nel 1975 costruì un piccolo chiosco per i gelati di due metri per tre. In seguito passò a friggere le alici e arrostire i cefali che pescava. La moglie tirava tutto il giorno la pasta per le orecchiette e cucinava melanzane ripiene; il San Nicola, uno dei primi centri turistici del Gargano, cominciava ad affollarsi; sempre più curiosi si affacciavano, rapiti e stupiti, di fronte a quel gigante di legno. I curiosi diventarono amici e dispensarono consigli: “Dài, perché non apri un ristorante?” – gli dicevano – e lui non ci pensò più di tanto. Oggi quel chiosco è uno dei ristoranti più rinomati della costa, ed è una delle “cattedrali” laiche del Gargano, votato alla buona e sana gastronomia locale.
Alla quinta generazione gli Ottaviano non hanno perso la passione per il trabucco. Certamente quello di Punta San Nicola vedrà ancora molte albe e tramonti, giornate di quiete e di tempesta, senza essere abbattuto dall’incuria e dal tempo.