Anno 3 N°7Attualità

Il mezzogiorno d’Italia tra risorgimento e i nostri giorni

L’annessione del Mezzogiorno nel contesto dell’Unità d’Italia trovò non poche difficoltà, ed in particolare in provincia di Foggia, dal momento che si registrarono reazioni a macchia di leopardo da parte di coloro che erano rimasti ligi al reame borbonico, a tal punto che insorsero i Comuni di Orsara, Greci, Biccari, Rodi, Vico, Roseto, Orta, Accadia, Bovino, S. Marco in Lamis e San Giovanni Rotondo. D’altronde, l’ultimo sovrano Borbone, Francesco II, varò una serie di riforme che concesse più autonomia ai Comuni, emanò amnistie, migliorò le condizioni di vita dei carcerati, dimezzò l’imposta sul macinato, ridusse le tasse doganali, fece fronte ad una carestia in atto abbassando il prezzo del grano, ampliò la rete ferroviaria del Regno (Napoli-Foggia, Foggia-Capo d’Otranto, Palermo-Messina-Catania). Senza dimenticare il ruolo del brigantaggio meridionale, un fenomeno questo utilizzato dai Borbone ed in particolare da Francesco II, che prese l’appellattivo di “re dei banditi”, per difendere il suo Regno dall’assalto dei “garibaldini” e dei riottosi.
Il plebiscito, però, che doveva sancire l’annessione al Regno d’Italia dell’ex Regno delle Due Sicilie, registrò un risultato a dir poco clamoroso, rispetto alle resistenze, giacché si contarono ben 1.302.064 favorevoli a fronte dei 10.312 contrari.
La situazione complessiva nel Regno delle Due Sicilie, prima della proclamazione dell’Unità d’Italia, dal punto di vista occupazionale non era sfavorevole.
Il territorio meridionale, infatti, era considerato il terzo Paese più industrializzato del mondo con circa 5mila fabbriche rientranti in un comparto che comprendeva artigianato, industria, servizi, terziario e dava occupazione ad un milione e duecentomila addetti.
La prima fabbrica metalmeccanica per produttività ed estensione era quella di Pietrarsa, che fu costruita nel 1842 tra Portici e San Giovanni a Teduccio. Notevoli furono anche i cantieri navali di Castellammare di Stabia con 1800 operai e l’Arsenale di Napoli con 1600 addetti. Importanti industrie tessili del Sud fornivano la Casa Reale inglese e l’Esercito francese, senza trascurare la presenza nell’” hinterland” di industrie cartarie, chimiche, estrattive e del vetro.
A parte la vocazione agricola del territorio, con la presenza del Tavoliere delle Puglie e i suoi 96.964 addetti al comparto, di grande rilievo era anche il settore alimentare che contava 300 pastifici e quello riferito agli oleifici pugliesi già dotati del marchio “doc” dal 1844.
Dopo l’unificazione d’Italia, l’industria meridionale nonché l’agricoltura furono letteralmente abbandonate e penalizzate con una politica economica che favorì il Nord a danno del Sud, come si evince da un’inchiesta sulla ripartizione territoriale delle entrate e delle spese dello Stato formulata da Francesco Saverio Nitti, dal momento che per diversi decenni si verificò un continuo drenaggio di capitali dal meridione al Nord dovuto proprio ad una scelta di politica economica dello Stato, mentre sul piano delle imposte il Mezzogiorno e la Sicilia contribuivano in maniera di gran lunga superiore alle regioni del Nord. Non andava meglio per i lavori pubblici, in quanto gran parte delle spese si registrarono nell’Italia Settentrionale e Centrale. In sostanza il bottino dei Savoia fu veramente enorme se si considera che il danaro trafugato dalle casse delle “Due Sicilie” ammontava a 443 milioni di lire oro, vale a dire due volte superiore a quello di tutti gli Stati preunitari della penisola messi insieme; lo Stato savoiardo ne possedeva solo 20 milioni.
La Capitanata, con un territorio prevalentemente agricolo e la gran parte del Mezzogiorno, in verità, non erano stati al passo con la nuova politica doganale che prevedeva sviluppo e modernizzazione, dando vita alla costituzione di un blocco dominante del quale facevano parte gli agrari e i proprietari, tra l’altro assenteisti, a totale danno dei braccianti, nonostante nella provincia di Foggia si registrasse la presenza di 96.964 unità impegnate in agricoltura.
La rimanente parte della popolazione dauna era dedita all’industria (29.901), al commercio (8.059), alle professioni liberali (4.985), al culto (2.523), al servizio delle pubbliche amministrazioni (1.196), alla sicurezza dello Stato (2.427), ai servizi domestici (3.884).
Di notevole rilievo le industrie di ceramica tra Lucera, Cerignola, San Severo ed Ascoli, le fabbriche di tessuti di lana di Roseto, Alberona, Orsara, Sant’Agata, Accadia, Ascoli e Biccari, il lanificio di San Marco in Lamis, le industrie casearie del Gargano e di Castelluccio Valmaggiore, i circa 1.000 mulini sparsi su tutto il comprensorio provinciale, le industrie manifatturiere di tessili, le industrie di legnami e materiali da costruzione, nonché le “reali saline” di Margherita di Savoia che con una trentina di magazzini producevano circa 230.000.000 di quintali di sale l’anno esportati in tutta Europa.
La situazione in Capitanata peggiorò nel 1866, come si legge nella Relazione del Prefetto Scelsi, a tal punto da risultare drammatica in tutti i settori della vita pubblica con particolare riferimento all’occupazione, all’ordine pubblico ed in materia di istruzione e socio-sanitaria, dal momento che occorrevano interventi urgenti ed efficaci per riprendere un cammino che si presentava lungo, difficile e tortuoso.
Con un iter iniziato nel 1861 che giunse fino al 1892, alcuni deputati pugliesi, fra i quali gli onorevoli Ricciardi, Zuppetta, De Peppo e Bonghi, avevano presentato alla Camera alcuni progetti per l’affrancamento del Tavoliere in materia fiscale, che in realtà agevolò solo il capitale, che a sua volta doveva favorire i braccianti e i contadini nelle loro attività nei campi.
Da rimarcare, tornando indietro nel tempo, che in provincia di Foggia la “Giovine Italia” di mazziniana memoria aveva avuto proseliti ed ebbe la sua più alta espressione in Luigi Zuppetta (vedi ‘Diomede’ n. 4/2010 – ndr), la cui fama di uomo politico di parte repubblicana e come docente di diritto penale non si fermò alla Puglia; anche Giuseppe Ricciardi da parte sua fu tra i pochi ad avere chiare intuizioni sul ruolo che il Sud avrebbe avuto nell’Italia unita, senza il cedimento,
notato in altri, di posizioni storicamente ed economicamente acquisite, intuizioni che successivamente lo portarono a dissentire dal pensiero di Mazzini.                A porre i freni allo sviluppo dell’agricoltura la mancanza di risorse finanziarie e la scarsità di acqua; si rendeva necessario attivare il credito agrario e nello stesso tempo bonificare gli immensi terreni paludosi dando vita ad un processo di irrigazione che coinvolgesse sorgenti, canalizzazioni di acque che rendevano il terreno paludoso, creazione di pozzi ordinari e artesiani, derivazioni delle acque del Fortore, Ofanto, Calore, Celone, Cervaro, Carapelle.
L’irrigazione avrebbe giovato anche alla pastorizia dal momento che il bestiame, che in passato ammontava ad oltre un milione e mezzo di capi, non superava le cinquecentomila unità.
Quindi l’irrigazione avrebbe favorito i terreni coltivati a pascolo, ma nello stesso tempo occorreva imparare le nuove tecniche di allevamento, migliorare la razza e creare ovili migliori anche per proteggere gli animali di notte.
Al contrario di altre province la cui viabilità era scarsa e precaria, la Capitanata poteva disporre di circa 1.000 km. tra  trade ferrate e rotabili, risorsa  questa che poteva creare nel tempo le premesse per uno sviluppo organico del territorio, anche se non mancavano problemi per la manutenzione, considerate le esigue risorse di cui disponevano i Comuni, ai quali venne in soccorso l’Ente Provincia.
Foggia era sede di un importante nodo ferroviario dovuto alla sua posizione geografica strategica che consentiva collegamenti tra le aree urbane del Sud e del Nord con notevoli benefici per il trasporto delle merci che avrebbero reso il capoluogo dauno il più grande emporio commerciale del Mezzogiorno.
Vittorio Emanuele II inaugurò il primo tratto ferroviario nel 1863, mentre il principe ereditario Umberto I, conscio dell’importanza dello svincolo commerciale foggiano, visitò il centro pugliese per dare più impulso alle attività connesse all’agricoltura e al commercio.
Nel contesto generale si rende, altresì, necessario ricordare, oltre alle grandi industrie napoletane già citate, l’impianto di Mongiana sulle serre calabresi ritenuto, come sostiene Pino Aprile nel libro “Terroni”, «il più ricco distretto minerario e siderurgico del Regno delle due Sicilie e dell’Italia intera. Fu soppresso dal governo unitario, per un grave difetto strutturale: era nel posto sbagliato, nel Meridione ». Gigi Di Fiore nel condividere il lavoro di Aprile cita nel suo testo “Controstoria dell’Unità d’Italia” «le consistenti risorse finanziarie che presero le vie del Nord dopo la requisizione e la vendita dei beni ecclesiastici; si trattava di 600milioni che solo in minima parte furono reinvestiti nell’area geografica di provenienza.
Esempio illuminante i lavori ferroviari: dal 1863 al 1898 si spesero 1.400.000.000 nell’Italia centrosettentrionale; solo 750milioni in quella meridionale e insulare». Di Fiore nella sua ricerca fa notare come «il mercato libero si era rivelato una condanna per l’industria meridionale ». La stessa tesi sviluppata da Intro Montanelli che nei suoi testi sull’unificazione sostiene come «sia facile capire cosa avvenne da noi dopo il 1860. Le industrie meridionali producevano a costi molto alti.
Quando, con la proclamazione dell’Unità, caddero le tariffe doganali del Papa e dei Borbone che le proteggevano, il mercato fu invaso dai lombardi, superiori di qualità e inferiori di prezzo».
Quindi risulta vero che nella sua autarchia il Mezzogiorno sarebbe rimasto ricco ed autosufficiente e sicuramente alla pari sotto il profilo economico con il Nord. Una tesi sostenuta anche da Vittorio Daniele e Paolo Malanima nel saggio “Il prodotto
delle regioni e il divario Nord- Sud in Italia (1861-2004)” che, nel ribadire che tra Nord e Sud non vi erano differenze in economia, mettono in evidenza come nel 1861 l’urbanizzazione del Mezzogiorno fosse il doppio di quella del CentroNord, vale a dire il 35,7% contro il 16,2%. Non solo.
Dopo trent’anni dall’unificazione, le regioni meridionali vantavano un prodotto pro-capite in agricoltura superiore del 10% rispetto al Nord.
Quindi, se di differenze a favore del Nord si può parlare, queste vanno riscontrate nell’analfabetismo, nelle infrastrutture, nell’igiene e nella ricchezza mobile che si ricavava in base al valore locativo dell’abitazione.
Una cosa è certa: nel corso degli anni, dalla grande guerra al fascismo ed ai giorni nostri, il Mezzogiorno si è impoverito sempre di più a favore del Nord con una crescita economica sempre più bassa. A 150 anni dall’Unità d’Italia, durante i quali notevoli sono stati i benefici di politica agraria e di sviluppo industriale con particolare riferimento al “boom” degli anni Sessanta, la situazione politico-economica attuale del Mezzogiorno lascia alquanto perplessi
e preoccupati per la grave congiuntura, nonché per i presunti rischi di secessione che provengono da alcuni territori del Nord, mentre è iniziato l’iter per il federalismo fiscale con ulteriori penalizzazioni per il Sud.
In Capitanata, in particolare, sono state dismesse tutte le medie e piccole industrie insediate sul territorio negli anni Settanta ed Ottanta, sono stati soppressi il Distretto Militare, la Scuola di Polizia, il Deposito “cavalli stalloni”, il Deposito Grandi Officine delle Ferrovie dello Stato, nonché ridimensionati l’Istituto Poligrafico dello Stato, la Banca d’Italia (che non offre più servizio al pubblico dal 2010), il nodo ferroviario ritenuto fra i più importanti della penisola,
la Fiera internazionale dell’Agricoltura già seconda per importanza dopo quella di Verona, l’Istituto Ovile Nazionale considerato un gioiello della zootecnia italiana, mentre nel capoluogo dauno l’Amministrazione Comunale rischia il dissesto finanziario con gravi riflessi sull’economia del territorio, sui lavori pubblici, la sanità, i servizi sociali e scolastici e l’occupazione.
Intanto, mentre l’aeroporto “Gino Lisa” assicura alcuni collegamenti con il Nord e la Sicilia, sia pure a termine, l’unica  consolazione, si fa per dire, riguarda l’Università degli Studi di Foggia che, dopo le ultime riforme, sperando non rischi il ridimensionamento , dispensa mini lauree che offrono il titolo di dottore senza prospettive in mancanza di ulteriore specializzazione.
“Evitiamo la fuga dei cervelli”, recitava uno “slogan” dell’ateneo foggiano, senza tener conto che il nostro territorio non offre sbocchi solutivi sul piano occupazionale e della ricerca.
Intanto, rischi di secessione che prevedono la Capitanata aggregata al Molise sono sempre più attendibili dal momento che una decina di Comuni della provincia, approvando un o.d.g. nell’àmbito del Progetto “Moldaunia”, hanno determinato i numeri per un “referendum” popolare in merito.
L’ultima speranza, invece, considerata la vocazione agricola della Capitanata ed in particolare del Tavoliere già definito “granaio d’Italia”, è riposta nell’”Autority Alimentare”, l’Agenzia nazionale per la sicurezza alimentare, il cui insediamento per il momento è rimasto solo sulla carta.
Forse un piccolo spiraglio di luce si intravede nello sport ed in particolare nel calcio, considerati i programmi dell’attuale società dell’U.S. Foggia che, attraverso un progetto, prevede la costruzione di una “cittadella sportiva” con impianti idonei, stadio, verde pubblico, attività commerciali, campus universitario, servizi, specchi d’acqua, che metterebbero in moto un circuito socioeconomico virtuoso che potrebbe risollevare, sia pure in minima parte, l’immagine e l’economia dell’intero territorio. Ma questa è solo una goccia nel mare.