Anno 1 N°1Focus

La tradizione del presepio tra rito e mito

Appartengo ad una generazione che ha ancora un radicato senso di rispetto per alcune tradizioni. In modo particolare per quelle strettamente private, cioè familiari. Non per una forma di partito preso contro tutti i modernismi e le omologazioni mentali e di comportamento dell’ultim’ora, ma piuttosto per una consapevolezza netta delle mie origini e della mia educazione. E’ un concetto semplice. Nel senso che, pur vivendo e godendo a pieno questi tempi, conservo amorevolmente i miei album di ricordi familiari, coltivandoli e rinnovandoli appena posso. E’, appunto, una forma di forte e tenero rispetto nei confronti del mio vissuto, della mia famiglia, dei miei affetti. Tale pratica mentale e comportamentale si rinnova ogni anno con i riti legati alle festività natalizie. Il Natale, al di là degli aspetti intrinsecamente religiosi, presenta tutta una serie di esercizi rituali pratici che affondano le loro radici nella tradizione. Ma quale tradizione? O meglio: quante tradizioni esistono riguardo al Natale? Da dove provengono? Che origine hanno? Sono realmente nostre o sono banalmente importate per una sorta di furore cosmopolita che pare abbia contagiato tutti? La mia famiglia, a riguardo, ha sempre avuto punti fermi ben chiari. E così, come ai primi di novembre festeggiamo i santi e commemoriamo i nostri defunti… e non Halloween, a Natale manteniamo e rinnoviamo pratiche ben radicate che appartengono al nostro vissuto, alla nostra tradizione, alla nostra cultura. A Natale preferiamo il panettone al pandoro. I regali li porta Gesù Bambino e non Babbo Natale o, peggio, Santa Claus… ed il simbolo principale della festività, l’icona al centro di tutto, non è l’albero di Natale ma il presepe. La mia famiglia a Natale ha sempre “fatto il presepe”… anzi: il presepio (con la i). Tutti i miei ricordi di bambino rimandano al presepio. Tutta la simbologia natalizia ha sempre ruotato attorno al presepio di famiglia: alla sua ideazione, alla sua costruzione, al suo allestimento, alla sua conservazione ed anche se gli anni trascorsi hanno, inevitabilmente, mutato certe situazioni, posso ben dire che è stato il presepio l’essenza stessa del nostro Natale. Ma quale presepio? E qui occorre fare alcune distinzioni temporali, sempre nel segno della tradizione. Tolti i miei primi due anni di vita, passati in quel di Roma e dei quali, ovviamente, non ricordo nulla, i presepi familiari dei quali conservo memoria sono stati certamente due, con l’appendice di un terzo, ugualmente memorabile e degno di nota per le sue, diciamo così, innovazioni tecnologiche. Innanzi tutto il presepio di casa mia a Foggia, che mi rimanda direttamente in una strettissima dimensione familiare, con al centro la figura di mia nonna paterna che con noi viveva. Era la nonna la vera artefice e custode della nostra tradizione presepiale, che ogni anno si rinnovava dopo la prima settimana di dicembre quando si “faceva il presepio”. L’allestimento del presepio, ai miei occhi di bambino, appariva sempre come operazione misteriosa e affascinante: un arcano esercizio tecnico ingegneristico ai cui segreti non mi era consentito accedere. Fino all’età di circa dieci anni, infatti, il presepio sorgeva, come per magia, in una notte di intenso lavoro da parte dei più grandi. Non mi era concesso il privilegio di far parte di tale squadra allestitrice. Ricordo l’atmosfera elettrizzante che precedeva questa sorta di «notte del presepio». Le avvisaglie si manifestavano con chiarezza almeno 48 ore prima della sua costruzione. Un angolo del salotto (rimasto sempre quello negli anni) veniva sgombrato da tavolini, poltrone e orpelli vari, pronto per la bisogna. Comparivano scatoloni di cartone marrone, recuperati da lontani traslochi e legati con spago sfilacciato (lo scotch largo era di là da venire) e fasci di carte raggrinzite che ricordavano le tute mimetiche dei soldati: era la carta per fare le montagne che vedevo unicamente in occasione del presepio e che scompariva per il resto dell’anno, stipata 12 mesi sul fondo dello sgabuzzino di casa. Capanna, statuette, pastori e pastorelle, pecore, re magi, angioletti e casette varie venivano tirati fuori all’ultimo momento, generalmente conservati in scatole da scarpe di carton bianco con scritte che ricordo ancora adesso: Calzaturificio Brindel, La Spezia – Fiocca scarpe, Castel di Sangro e ancora: Casa dello stivale, Roma – De Pascale, Foggia… e via dicendo. Anche queste scatole facevano capolino solo in occasione del Natale ed una volta svuotate si usavano come supporto e rigonfiamento alla carta per le montagne: “Per farle stare su”… come diceva mio padre! La sera prima dell’allestimento finale del presepio, ecco i cavalletti in legno e la tavola squadrata ad angolo, appositamente costruita da mastro Padalino e che serviva solo e soltanto a quello: era la tavola del presepio e basta. Mai che potesse essere adoperata per altri scopi. Del resto, la roba del presepio era la roba del presepio: non poteva e non doveva avere alcun altro uso! Con tali segni premonitori ormai evidenti, noi bambini andavamo a dormire «dopo Carosello» molto più eccitati del solito, sapendo che al mattino seguente, nel solito angolo del salotto che non cambiava mai, ci sarebbe stato il presepio. La caratteristica prevalente del presepio di famiglia era la sua ambientazione. Le statuette dei vari personaggi sono sempre state collocate in uno scenario molto lontano dalla storiografia ufficiale e, quindi, molto poco mediorientale, privilegiando le origini e le tradizioni della famiglia. Quindi un presepio, per così dire, agro-silvo-montano con rimandi espliciti al mondo pastorale e transumante che ruotava attorno all’allevamento ovino, in perenne transito tra Abruzzo e Puglia. Si può dire che lo sforzo maggiore dell’allestimento veniva riposto nella scelta accurata di pecore e pastori, che dovevano essere collocati secondo criteri veritieri in perfetta aderenza con la vita reale. Questo spiega la massiccia presenza nel presepio di grandi greggi di pecore, posti su vari livelli che ne mantenevano e ne restituivano una corretta prospettiva: le più piccole e stilizzate in lontananza, quasi a confondersi in un orizzonte montano che rammentava i pascoli abruzzesi. Quelle meglio definite in primo piano, praticamente al proscenio e di rimpetto alla capanna col bambino. Erano larghe macchie bianche di pecore dalle zampette sottili e fragili. Greggi veri e propri formati anche da 100/120 animali in terracotta, a loro volta suddivise in morre di 60 pecore, come nella realtà della gerarchia d’allevamento. Il tutto (siamo riusciti ad avere perfino un presepio con oltre 200 pecore) ambientato con maniacale dovizia di particolari attorno allo stazzo (jaccio) che, in miniatura, riproduceva realmente i recinti di raccolta degli animali. Erano delicatissime opere di spago intrecciato a bastoncini di legno e stuzzicadenti, dal sicuro impatto scenico ma di una fragilità estrema tanto che, col tempo, sono andati irrimediabilmente persi. Ogni morra di pecore così raggruppata era presidiata da due pastori in abiti consoni e da tre cani feroci e rigorosamente bianchi. Tale precisa ambientazione venne arricchita e completata, una volta, dalle famose “pecore vere” che mio padre riuscì a scovare in uno sperduto paesino del Teramano. Erano una quindicina di pecorelle stilizzate in legno, alle quali un paziente artigiano aveva applicato della vera lana, diversa a seconda delle razze. E così ecco le crespe e rugose Gentile di Puglia accanto alle Altamurane (le cosiddette pecore mosce) ed anche qualche Black Face di origine inglese e Ile de France d’oltralpe. Pareva più un mercato zootecnico che un presepio! Ma per qualche Natale vennero sistemate da una parte, un po’ isolate e accanto alle altrettanto famose pecore “libanesi” che uno zio ci regalò al ritorno da un suo viaggio in quei lidi (allora certamente più frequentabili). Erano sproporzionate rispetto alle altre; erano tutte uguali (e quindi poco credibili) e, soprattutto, non erano pecore… ma graziose caprette di sicuro ceppo mediorientale. E dire che sono le uniche rimaste integre! Ma insomma… la resa visiva di cotanta certosina applicazione era realmente formidabile. L’impatto scenico potentissimo, tanto da far passare quasi in secondo piano tutto il resto del presepio che, pure, era anch’esso di notevole fattura. La capanna della natività era ricavata da cortecce di faggio, con una piccola mangiatoia riempita di vera paglia. La Madonna e San Giuseppe erano forse le  tatuine più antiche e meglio concepite. I quattro angioletti che circondavano la capanna impeccabili nelle loro vesti bianche con ali dorate ed i personaggi di contorno bene si inserivano nel contesto della scena sacra. I Re Magi venivano rappresentati in due diversi momenti: a cavallo dei loro cammelli, di lontano e quasi sullo sfondo per tutto il periodo che precedeva l’Epifania. E a noi bambini veniva concessa l’unica manipolazione del presepio: potevamo, ogni giorno, fare avanzare la carovana di qualche passo fino al 6 gennaio quando sparivano i cammelli, sostituiti dalle tradizionali statuette inginocchiate dinanzi al bambinello con l’oro, l’incenso e la mirra (…che nessuno è mai riuscito a spiegarmi cosa fosse)! Tutte le statuette del nostro presepio erano rigorosamente in terracotta, ma niente di prezioso naturalmente. Nemmeno un accenno alla Scuola Napoletana. Di grandezze non superiori ai 10 centimetri e con poche concessioni a particolari di scarsa credibilità. Ma erano essenziali, servivano allo scopo ed erano, soprattutto, le nostre statuette che, passate le Feste, venivano avvolte una ad una in sottilissimi fogli di carta velina e riposti nelle scatole da scarpe di carton bianco fra due strati di paglia per evitarne la rottura. Soltanto il Bambin Gesù seguiva una via diversa: era una ceramica francese antica e certamente più preziosa delle altre che mia nonna adagiava, tra due fazzoletti di pizzo, in una scatolina datata e conservava lei stessa in luogo segretissimo assieme ad un foglietto di carta ingiallita dal tempo sul quale era vergata a mano una particolare preghiera che solo il 25 dicembre veniva letta e ripetuta da tutti. Ho ben stampata nella memoria la figura di mia nonna che, la mattina di Natale, ci riuniva tutti nell’angolo del salotto accanto al presepio, sotto l’immagine di un cuore di Gesù e leggeva questa preghiera/invocazione sul foglietto manoscritto. Non ricordo più il testo ma si parlava del nonno invocandone la protezione e benedizione come di un dio domestico e benigno; si accennava all’unità della famiglia ed agli obblighi cristiani, unitamente all’omaggio doveroso al Bambin Gesù appena nato. Poi qualche Ave Maria e altre giaculatorie con voce sempre più incrinata dalla commozione. Tutti i presenti partecipavano: con le donne in ginocchio, gli uomini dietro, assorti, la domestica a rispettosa distanza e noi bambini scanzonati e frementi che scalpitavamo per aprire i regali. Perché in famiglia era usanza aprire i pacchi natalizi la mattina del 25 e non alla mezzanotte del 24. Tale prassi resta consolidata ancor oggi, così come è ancora consuetudine il cosiddetto rito della scarpa. Accade infatti che la notte di Natale, molto tardi e prima di andare a dormire, ognuno dei componenti della famiglia debba lasciare, ai piedi del presepio, una propria calzatura: esattamente una scarpa, non importa quale… purchè personale. E’ il proprio segno di riconoscimento per la consegna dei regali da parte di Gesù Bambino che, nottetempo, distribuirà i suoi doni ben “impilati” sotto ogni scarpa! Ho ricordi vividi di mattinate natalizie  emorabili quando, ancora in pigiama e con occhi cisposi, noi bambini correvamo ciabattando in salotto, nell’angolo del presepio che mai cambiava, per aprire felici quei regali che, misteriosamente, erano comparsi nello spazio di una magica notte… sotto le scarpe di ognuno di noi. Ancora una volta era il presepio il centro catalizzatore di tutta la scena: l’altare attorno al quale si viveva il rito familiare dello scambio dei doni e delle strenne natalizie. Questo presepio nostro, ferocemente abbarbicato ad una tradizione che nulla concedeva al superfluo, al di più, al fronzolo fine a se stesso, quasi all’inutile. Niente farina setacciata per simulare un’improbabile neve sulle montagne. Scarsissima illuminazione, solo qualche lampadina sparsa qua e là a giustificare un falò da campo, a simboleggiare un lampione, a schiarire un anfratto buio. Il fondale che raffigurava un cielo fin troppo oscuro, trapuntato di semplici stelline dipinte a mano, sul quale sfumava in lontananza un nastro argentato come simbolo di una sella cometa appena tracciata. Nessun cedimento alla tecnologia, a movimenti meccanici, a finti laghetti, a personaggi avulsi dal contesto o a giochi di luce per alternare albe e tramonti. Tutto il contrario del presepio che si allestiva a casa di mia zia in quel di La Spezia. Una magnifica ed enorme villa con giardino, adagiata sui colli liguri che dominano il golfo dei poeti dove, per i tre anni dal 1966 al 1968, passammo il periodo natalizio riunendo più di un gruppo familiare, in una dimora che ben si prestava allo scopo. I miei cugini di lassù erano, per antonomasia, i cugini grandi: tutti liceali o già universitari e tutti con il pallino mal celato della meccanica e dell’elettricità. Avendo spazio a disposizione e mettendo a frutto queste loro capacità, destinavano un’intera stanza alla costruzione di un presepio maestoso e ricco di particolari, quasi un plastico, il cui allestimento richiedeva un generoso uso di accorgimenti tecnici. Montato su cavalletti e tavole in legno, ad un’altezza dal pavimento di circa un metro e mezzo, il presepio di La Spezia aveva il suo punto di forza nel movimento, che dava alla scena rappresentata uno straordinario senso di dinamicità. Ricordo ancora, con stupore, intere schiere di 30 o 40 angioletti, tutti legati con invisibili fili di seta a marchingegni rotatori e che letteralmente volavano muovendosi meccanicamente. Restavo allibito ed ammirato al cospetto di soluzioni geniali adottate per far spostare intere schiere di statuine: una lunga fila di minute porcellane incollate ai vagoni di un trenino elettrico che, doverosamente occultato ed azionato al momento opportuno, faceva camminare i personaggi rappresentati, sullo sfondo di un cielo trapunto di stelline luminose e berluccicanti, collegate ad ingombranti trasformatori elettrici. O ancora: i 4 cilindri in legno di una trentina di centimetri con incollata segatura colorata che un sapiente uso del “meccano” faceva ruotare vorticosamente, simulando alla perfezione cascate e fiumi impetuosi. Il tutto avvolto da una musica celestiale che automaticamente veniva diffusa da uno dei primi impianti hi-fi in circolazione. Insomma, una vera opera ingegneristica. Un presepio tecnologico che ogni Natale stupiva ed un po’ intimoriva, pur restando assolutamente nel solco della tradizione familiare. Anche qui, infatti, grandi greggi di pecore e pastori e cani bianchi, per rammentare a tutti le origini della famiglia e rinsaldarne usi e costumi. Tecnologia sì… ma nella tradizione della nostra arte presepiale. Tra il presepio della casa di Foggia e quello ligure, a cavallo fra tradizione rigorosa ed innovazioni tecniche, si inserisce perfettamente il presepio della casa a Barrea, Abruzzo aquilano e luogo d’origine della famiglia che, temporalmente, segue i due precedenti e ne è la naturale conseguenza, la storica evoluzione e lo sbocco definitivo, quasi a chiudere un cerchio riportando tutto al punto di partenza. Con la scomparsa di mia nonna, si perdeva una figura centrale e catalizzatrice per la famiglia. Con il Natale del 1969 si pensò ad una sorta di ritorno alle radici e si decise di attrezzare la cosiddetta casa paterna in Abruzzo rendendola consona per il periodo natalizio. Classica casa di paese, in solida pietra, poderosa, che trasudava ricordi; un po’ trascurata ma sufficientemente grande per ospitare tre nuclei familiari con l’aggiunta di qualche altro parente e amico. Si adattava perfettamente, e tuttora si adatta, alle esigenze climatiche estive… ma era decisamente male in arnese per reggere ai rigori dicembrini dell’inverno abruzzese. Pertanto fu munita di una serie di stufe a legna e carbone, abbastanza arrangiate, che avevano la caratteristica di irradiare un calore insopportabile nelle immediate vicinanze, lasciando mortalmente al gelo interi settori della casa! Ma insomma, tanto bastava a rendere abitabile gli ambienti per il periodo natalizio. Da quel momento in poi e per gli anni a seguire, il Natale venne trascorso, vissuto e festeggiato tra le mura domestiche di quella casa, riunendo le famiglie di mio padre e delle sue due sorelle per tutta la durata delle Feste. Questa situazione portò, di conseguenza, anche ad una riunione dei pezzi del presepio di famiglia che erano stati divisi tra Foggia, La Spezia e Roma. Una specie di ricompattazione del tutto, in territorio comune. Il presepio era sempre quello: come idea, concetto, simbolo e tradizione… ma più completo, più definitivo. Ecco quindi pecore in terracotta che si integravano con il resto delle greggi o che sostituivano pezzi rotti o andati perduti. Statuette di varia fattura che andavano a completare un allestimento già ricco a sufficienza. La comparsa di case, casette, taverne e botteghe, rigorosamente in legno, permetteva un’ambientazione più dettagliata. Maggiore cura nei particolari e qualche timida novità dovuta ai tempi più moderni: una stella cometa retro-illuminata a intermittenza, luci e lucette disseminate qua e là, un ruscello fatto di carta stagnola che scorreva lungo un declivio, un pezzo di vetro trasparente a simboleggiare un laghetto montano. La neve, finalmente, con la farina setacciata sulle alture ed ancora pecore, tante pecore e pastori in abbigliamento consono e cani bianchi feroci. Il tutto letteralmente adagiato su di un manto di muschio… muschio vero e reale: talvolta ancora umido, più spesso proprio bagnato, che si andava a raccogliere fuori, tra i boschi, sugli alberi e sulle rocce esposte a nord, come insegnava l’enciclopedia. Per il presepio di Barrea venne riesumato un antichissimo fondale, recuperato per magia in un baule polveroso. Era un vetusto drappo dalla consistenza di un papiro, decisamente rovinato dal tempo e dagli eventi, ma che aveva seguito le vicende della famiglia da più generazioni e, conseguentemente, era oggetto di venerazione come la Sacra Sindone. Veniva disteso come sfondo della capanna, riproducendo un paesaggio consono alla scena con dune e palme in abbondanza. Si rinsaldava così, nella avìta casa patronale di Barrea, l’antico rito dell’arte presepiale di famiglia che da allora fino ai giorni nostri non smette di rinnovarsi al sopraggiungere del Natale. Sono passati gli anni e sono anche mutati i tempi. Per qualcuno è pure cambiato, o quantomeno la percezione di esso. Per molte cose la mia famiglia si è adeguata a nuovi riti e nuove usanze. Mio figlio di 10 anni vuole l’albero di Natale, sempre più grande e più sfavillante. Oltre al panettone, mangiamo anche il pandoro… perché no! Ma a casa mia i regali li porta ancora Gesù Bambino, magari con l’aiuto di Babbo Natale e quando arriva il tempo del Natale, in un angolo del salotto che non cambia mai, potete star certi che c’è sempre un presepe… anzi, un presepio con la “i”…quel presepio. Forse più piccolo, con qualche statuetta mancante ed una stella cometa nuova e luminosa. Ma sempre con tante pecore e pastori in abbigliamento consono e cani bianchi e feroci.