Nel 1861, infatti, il Sud era in rivolta contro il nuovo sistema piemontese poggiato su classi agiate del latifondo e della borghesia, contro l’abolizione degli usi e delle terre comuni, contro nuove ed esose imposte e il regime di occupazione militare. Il fenomeno, che caratterizzo in maniera drammatica quel periodo travagliato della storia del Meridione, prese il nome di “Brigantaggio”. E mentre ieri Francesco Saverio Nitti, riferendosi alle condizioni dei meridionali, scriveva: “…briganti o emigranti” oggi ancora riemerge, spesso in maniera contrastante, il dibattito su quella che viene indicata ancora come “Questione Meridionale”. Ma chi furono veramente i briganti, legittimi oppositori o semplici malfattori?
Il fenomeno del brigantaggio rappresentò nel Meridione d’Italia un evento particolarmente vasto e dai diversi aspetti. Vi fu infatti un brigantaggio delittuoso e criminale, che accolse tra le proprie fila malviventi e assassini votati alla grassazione e pronti ad uccidere per il facile profitto. Le nostre zone rimasero tristemente famose per la presenza di tali banditi e per la frequenza delle loro aggressioni, che si consumavano in quel difficile passaggio rimasto tristemente noto come il “Vallo di Bovino”. Infatti, in quel pericoloso transito, lungo il passaggio della strada che da Benevento portava alla piana foggiana, orde di masnadieri assaltavano viaggiatori e commercianti i quali, spesso, prima di mettersi in viaggio erano addirittura costretti a lasciare testamento.
Vi fu, però, un’altra tipologia di brigantaggio, diversa se non nei modi sicuramente nelle motivazioni che lo animarono e lo sostennero: quello cosiddetto politico, il brigantaggio post-unitario e reazionario che si oppose ad una unificazione sostenuta con le armi e con leggi che continuavano a privilegiare le classi agiate, anziché promuovere riforme importanti e rispettose della povertà.
A questo si aggiunse anche l’istituzione del servizio di leva che, all’indomani dell’Unità, reso obbligatorio per tutti, andò inevitabilmente a sottrarre braccia alle già misere famiglie contadine del Meridione.
Disperato e ancora maltrattato, il Sud probabilmente non colse la logica e la bontà di un’operazione importante come l’Unità d’Italia. O probabilmente non si ebbe la capacità di incentivare un evento tanto apprezzabile quanto oggettivamente difficile da attuare, che se non altro necessitava di riforme sociali responsabili e importanti. E le misere condizioni di un popolo affamato non mutarono, ma per certi versi, peggiorarono. La logica delle armi infine prevalse sulle ragioni del miglioramento, e un esercito bene armato fece valere il nuovo ordine Sabaudo che si sostituì a quello Borbonico. La politica repressiva piemontese a distanza di alcuni anni in effetti si rivelò efficace per debellare il brigantaggio meridionale che, però, era solamente il sintomo, elevatosi a simbolo sanguinario, di un vasto malessere. Molti braccianti si fecero briganti, infatti, sperando probabilmente di ottenere un minimo di riscatto da antiche ingiustizie e dalla squallida miseria che da sempre li opprimeva. Ma rabbia e disperazione poco fanno contro fucili e baionette.
L’esercito Piemontese per quasi cinque anni si trovò a fronteggiare “l’esercito dei cafoni”: moltissime bande armate, capeggiate da ex soldati borbonici e favorite da contadini nullatenenti ridotti alla fame da una miseria antica.
Non mancarono le donne, pronte a difendere anche con i denti i loro uomini fuggiti nei boschi.
IL CAPO BRIGANTE SANTAGATESE GIUSEPPE SCHIAVONE
Nella sola Capitanata furono censiti oltre 1500 briganti. Tra questi, rimasto famoso per le sue notevoli imprese, il capo brigante Giuseppe Schiavone, di Sant’Agata di Puglia. Descritto in diversi testi sul brigantaggio come uomo di spericolato coraggio, la sua baldanza lo portò presto al comando di una delle bande di quell'”esercito” che, comandato da Carmine Crocco, il “Generale” dei briganti, nell’aprile del 1861 marciò su Melfi, Ripacandida, Venosa e altri paesi del Vulture.
Schiavone morì fucilato in Melfi nel 1864 con alcuni suoi fidati compagni: Petrella di Deliceto, Marcelli e Capuano di Anzano e Vito Rendola, anche lui santagatese.
Stessa sorte toccò a tantissimi altri briganti condannati per direttissima, spesso senza neppure uno straccio di processo nel quale potersi difendere. Tra loro anche molta gente inerme che, a seguito della tristemente famosa legge “Pica”, si ritrovò molto spesso ingiustamente accusata di complicità.
LA VIA NEGATA AI BRIGANTI
Ma chi furono veramente i briganti? Legittimisti oppositori che non vollero piegarsi alle regole di un nuovo stato venuto con le armi e da lontano, o più semplicemente malfattori, banditi, come spesso riportato dalla storiografia ufficiale che tuttavia non ha mai indagato a fondo il fenomeno, partendo magari anche dai motivi che lo animarono e passando, soprattutto, anche attraverso la spietatezza con la quale fu debellato? Il dibattito è ancora oggi intenso e quanto mai attuale. E spesso riemerge a coinvolgere uomini e opinioni.
Come avvenne alcuni anni fa, quando il Sindaco di un comune lucano avanzò la proposta di intitolare una strada ai “Briganti Lucani”. Ferma e decisa, la risposta del Prefetto di Potenza non si fece attendere. Niente strade da intitolare ai briganti. “Il termine brigante – scrisse la Prefettura, come riportarono i giornali – è sinonimo di malvivente che, stando alla macchia, compie azioni criminose come membro di una banda organizzata – precisando che – i briganti si resero responsabili di gravissimi reati quali omicidi, rapine, estorsioni»”.
Per tentare di raccontare la storia dei vinti, e le ragioni che spinsero “il popolo dei cafoni” a ribellarsi, si levarono subito numerosissime voci, prima fra tutte, autorevole, quella del noto e valente scrittore lucano Raffaele Nigro che in un interes-sante, appassionato e provocatorio articolo dal titolo “Onore ai briganti, siamo figli loro”, spiegò sulla “Gazzetta del Mezzogiorno” i motivi per cui si diceva favorevole all’intito-lazione di una strada dedicata ai briganti.
«…Noi siamo figli di quei liberali e di quei briganti che ci hanno rimesso le penne sulle montagne centocinquant’anni fa. – scriveva Nigro nel suo articolo – Pedio schedò dodicimila nomi, nomi di sconosciuti … migliaia di silenziosi oppositori e ribelli che magari furono prima con Garibaldi a Calatafimi e al Volturno e poi gli furono contro, quando seppero che aveva permesso a Bixio di fucilare i contadini a Bronte. Perché i contadini si aspettavano la terra e invece si accorsero che c’era stata solo una rivoluzione borghese e non una rivoluzione sociale …”.
O BRIGANTI O EMIGRANTI
E se di legittima ribellione e opposizione si trattò, come sostenuto nel suo articolo da Nigro, un giorno o l’atro sarà la storia a decretarlo, ci auguriamo. Magari attraverso una più degna attenzione alla memoria dei vinti. Quei vinti che definiti sommariamente “Briganti” meritano se non altro un’attenta revisione dei fatti e dei tempi che li videro molto spesso, sia pure in maniera agguerrita, disperati inseguitori di una vita migliore e più decorosa.
Una dignità che non solo non trovarono loro, ma che non ottennero neppure i loro figli e i figli dei loro figli. Molti di loro, infatti, videro mutare la loro condizione solo perché da briganti divennero emigranti. Avvalorando proprio quanto sostenuto dal grande Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio, il quale, riferendosi al Meridione d’Italia, scriveva: «…In alcune delle nostre province del Mezzogiorno specialmente, dove è grande la miseria e dove grandi sono le ingiustizie che opprimono ancora le classi più diseredate, è legge triste e fatale: o emigranti o briganti».
Secondo alcuni dati dell’epoca, solo intorno al 1876 lasciarono i loro paesi per emigrare oltre 230.000 meridionali.
Ecco, in conclusione, se dunque non è stato possibile qualche anno fa intitolare una strada ai briganti lucani, in attesa magari di una revisione storica più attenta e profonda una via in qualche paese del Sud la si potrebbe intitolare a tanti loro figli e nipoti. A tutti quei meridionali, insomma, che all’ indomani dell’Unità d’Italia dovettero abbandonare i loro poveri paesi per cercare altrove un minimo di sostentamento dignitoso.
Una strada intitolata agli “Emigranti Meridionali” dunque, se non altro in cambio di quella via da loro spesso cercata, eppure ancora oggi troppo spesso negata.
La via del ritorno.