Anno 2 N°4Focus

Chi ha paura dell’uomo nero?

«Amico! How are you? Are you fine?». Mani che si levavano in alto, in segno di saluto. Tanti immigrati ormai conoscevano la mia bici gialla, la telecamera color bordò con cui mi recavo nel parcheggio, lì all’Ipercoop. Non erano più curiosi come nei giorni precedenti, quando mi vedevano fare foto e riprese nel parcheggio. Allora, mi osservavano come si osserva un matto. Mentre le tante famigliole che si recavano all’ipermercato per fare spese mi trattavano con la stessa indifferenza che riservavano loro: non uno sguardo. Molti immigrati mi conoscevano di persona, qualcun altro aveva chiesto di me agli amici. I più sfacciati sapevano che elargivo qualche spiccio, e tendevano la mano senza troppi pudori. Qualcun altro scappava, non si fidava delle foto, delle riprese: «I haven’t my documents. No passport, no identity card». In verità, nessuno di loro li aveva, i documenti. Erano tutti clandestini. Rappresentano un mondo sommerso, una sacca che l’opulenza occidentale si rifiuta di vedere. Non esistono. Non devono esistere.
Era il 31 agosto, sarei tornato a Roma il giorno dopo, ed avrei portato con me quelle facce spaurite, quegli occhi in cerca di vana comprensione, quella dignità quasi austera. Parlavano tutti solo inglese. Erano tutti ghaneani e nigeriani, la gran parte a Foggia da un anno e mezzo. Eppure non conoscevano che poche parole di italiano: ciò la dice lunga sui pochi contatti con la gente del posto.
Alla faccia dell’integrazione. «Qui nessuno parla inglese. Io vorrei far capire chi sono, vorrei far capire che ho un cuore anch’io, con dei sentimenti. Che ho un cervello e che penso. Io sono una persona. Ma nessuno parla inglese, e io non posso farmi capire. Tu che puoi, devi fare giustizia! Devi fare un reportage, devi far vedere in televisione la nostra vita squallida, devi dare voce alla nostra sofferenza».
La parola sofferenza è quella che ho sentito più frequentemente da loro. A parlare era stato un nigeriano sui cinquant’anni, con uno sguardo simpatico, un bel paio di baffi, una camicia di lino e voce accorata. Era un amico di John Ike, diceva, mi aveva visto qualche giorno prima, mentre lo intervistavo. Si era avvicinato intanto un ragazzo basso, pure lui proveniente dalla Nigeria. Anche lui in inglese: «Mi chiamo Sunday, ho tante cose da dire, vorrei essere intervistato. Però non oggi, voglio mettermi un bel vestito, così quando mi rivedo nelle riprese mi sentirò fiero. Ho tante cose da raccontare, del mio viaggio e di come vivo qui».
Persone. Persone che soffrono: troppo difficile da capire. Non uomini che vogliono violentare donne indifese nel parcheggio dell’Ipercoop. Neppure ladri armati, pronti a rapinare i clienti dalla spesa. Ma persone. Con una propria vita, spesso corredata da sofferenza. Era una persona, quell’uomo che voleva convincermi a convertirmi al cattolicesimo: «Do you believe in God?». Mi sono profondamente pentito di aver risposto di no: ha tirato fuori un Vangelo dalla borsa, ha iniziato a predicare, a leggermi alcuni passi, ha preteso che ne leggessi altri. Era una persona. E pazienza che fosse nero, che non fosse un prete ma solo un ragazzo ghaneano.
Ma dove vivevano, tutte queste persone? Di giorno si eclissavano tra l’asfalto rovente e le carrozzerie lucenti delle auto del parcheggio dell’Ipercoop. Chiedendo la monetina per riporre il carrello, o degli spicci per il parcheggio, o più semplicemente come elemosina. Ma di notte? La risposta era un coro: «A Borgo Mezzanone ». Tutti lì, a Borgo Mezzanone. Qualcuno aggiungeva: «Sulla pista».
Nel piccolo centro, poco più di 700 abitanti, sito a circa 17 km da Foggia, sorge un C.A.R.A., centro di accoglienza per richiedenti asilo, in un vecchio campo militare. Perché molti immigrati provenienti dall’Africa sono persone perseguitate politicamente o in fuga da guerre civili sanguinose, di cui nessuno sa nulla. In Somalia, il governo riconosciuto dall’ONU gestisce solo alcuni quartieri della capitale, Mogadiscio, mentre il resto del paese è in mano a bande islamiche terroriste affiliate ad Al Qaeda. La Costa d’Avorio è spaccata in due da una guerra civile, come molti paesi africani, alimentata da sete di potere che fomenta odio etnico. Etiopia ed Eritrea sono in mano a regimi nazionalisti e dittatoriali sempre più repressivi. Il Sudan è da anni piegato da lotte intestine, su base etnica e religiosa. I conflitti religiosi sono protagonisti anche in Nigeria, dove l’arroganza occidentale costringe gli abitanti del delta del Niger a spostare le proprie case per far posto alle piattaforme petrolifere delle multinazionali.
Molti enti e associazioni di Foggia e provincia sono seriamente attivi nel fornire assistenza ai migranti. Accanto a beni di prima necessità, molti di loro organizzano servizi di orientamento legale. Perché il migrante di Capitanata ha sì bisogno di cibo, di vestiti e di un letto, ma propone anche nuove esigenze: conoscenza dei propri diritti giuridici, accesso ai servizi, informazioni circa permesso di soggiorno o status di rifugiato. Le attività di solidarietà e assistenza a Borgo Mezzanone, presso il C.A.R.A. e non solo, sono ottimamente gestite da Don Domenico Facciorusso, responsabile della Caritas della diocesi di Manfredonia e San Giovanni e parroco di Santa Maria del Grano di Borgo Mezzanone, e da Dina Diurno, operatrice legale alla Caritas e al C.A.R.A.. L’idea, semplice e geniale, alla base del loro impegno, risiede nel coinvolgimento dei residenti in attività di volontariato a favore dei migranti, che permettono un’interazione che è reciproca conoscenza. «Perché la paura dell’immigrato è figlia dell’ignoranza, della cattiva informazione, dei media», osserva Don Domenico. E così l’assistenza ai migranti diventa anche educazione al rispetto dell’immigrato, di cui beneficiano le persone del posto. Che si autotassano per gestire anche Casa della Speranza. «L’abbiamo attivata da sei anni, ospita i migranti in attesa che la commissione territoriale decida circa la concessione dell’asilo politico».
Ma non finisce qui. Il territorio di Borgo Mezzanone, come buona parte del Tavoliere, è disseminato di casolari abbandonati, dove rumeni, polacchi, bulgari o maghrebini vivono in condizioni disperate, spesso sfruttati nei lavori agricoli. La comunità parrocchialesi prodiga per portare loro vestiti, coperte, informazioni sui presidi medici. Dina Diurno ricorda come le attuali attività di Borgo Mezzanone debbano molto ad un’equipe di Medici senza Frontiere, che nel 2003 seguì i migranti del territorio. Ma resta perplessa: «Un anno fa c’erano milleduecento migranti nel C.A.R.A., oggi, a causa delle politiche del governo, degli accordi con la Libia, un paese che non rispetta i diritti umani, ce ne sono sessanta. E poi, i migranti che escono dai progetti, o quelli di cui non vengono accolte le richieste di asilo, che fine fanno? Vivono nel degrado, sulla pista». La pista era davvero una pista, per piccoli velivoli, la cui gestione non compete al C.A.R.A., ma alla Prefettura. I migranti si sono stabiliti dentro alcuni container.
Pasquale Russo, coordinatore di vari servizi nel C.A.R.A., spiega che la pista è nel degrado più totale: «La sera del 10 agosto abbiamo stimato la presenza di centocinquanta persone. Mi sono vergognato di essere occidentale. Vivono in condizioni disumane, che non puoi immaginare. Ci sono fenomeni di delinquenza. Di sfruttamento della prostituzione. Pensa, per una ragazza, avere in mano un peluche, è un segno di riconoscimento: gli altri sanno che è una prostituta. E non devono toccarla».
Delinquenza, prostituzione. Roberto Lavanna, sociologo e antropologo, coordina due progetti: Roxana, legato alla lotta contro la prostituzione, e Aquilone, contro lo sfruttamento dei lavoratori. «Abbiamo liberato oltre centosettanta donne dalla prostituzione in dieci anni e settanta persone dallo sfruttamento lavorativo in quattro. Il problema è che ci sono legami con la delinquenza. Non solo locale, ma internazionale». Le vittime vengono reclutate con falsi avvisi di lavoro già nel paese d’origine. Poi finiscono sulla strada o sotto il controllo dei caporali. Lo sfruttamento sessuale e quello lavorativo procedono di pari passo. Soggiacciono ad una struttura piramidale, ai cui vertici ci sono le organizzazioni malavitose, alla base gli immigrati sfruttati. In mezzo, a svolgere ruolo di raccordo, i caporali e le madame. I primi schiavizzano i migranti nei campi, in lavori massacranti, spesso senza dare loro un compenso, facendoli vivere in condizioni subumane, perpetuando loro violenze, in accordo con i proprietari terrieri. Le madame gestiscono ragazze da far prostituire. I caporali sono spesso ex-braccianti, per lo più immigrati. Le madame sono ex-prostitute, immigrate. Sono pienamente d’accordo con Pasquale Russo, che nota come essi rappresentino l’integrazione (negativa) degli immigrati sul territorio.
Perchè delinquenza e malavita, prostituzione e sfruttamento lavorativo, sono realtà ben presenti nella provincia di Foggia.
Ecco come arrivano molti migranti in Capitanata: perché deciso da organizzazioni malavitose. O da organizzazioni umanitarie: molti nigeriani, ghaneani, somali, sono stati portati al C.A.R.A. dopo lo sbarco a Lampedusa. Magari passando per il centro di accoglienza di Brindisi. «Una mattina, erano le sei di un lunedì di gennaio 2009, ci svegliarono. Non ci dissero nulla, solo di prepararci. Ricordo tanti pullman e tanta polizia. Da Brindisi ci portarono al C.A.R.A. di Borgo Mezzanone. Senza avvisarci e senza spiegazioni».
John Ike sognava l’Europa sin da piccolo. Dalla Nigeria, a piedi, è arrivato sino in Libia. «Abbiamo attraversato il Sahara a piedi. Molte persone morirono. Solo in pochi arrivammo in Libia. Ogni volta che ricordo quel viaggio, piango. Non potrò mai dimenticare il Sahara disseminato di cadaveri. Persone morte di stenti per attraversare il deserto». Poi, un anno e mezzo fa, l’approdo in Italia. «Siamo rimasti sette giorni, sulla nave, cibandoci solo dell’acqua del Mediterraneo. Di quaranta persone, arrivammo a Lampedusa in nove». Oggi vive sulla pista ed elemosina al parcheggio dell’Ipercoop. Rassegnato, non ha prospettive future. Ed ha solo trent’anni. «Io sono un meccanico. Qua mi hanno chiesto di raccogliere i pomodori. Abbiamo lavorato per una settimana, non ci hanno mai pagato. Ogni giorno, dicevano che ci avrebbero pagato l’indomani». È arrabbiato e stanco. «Se qua vedono un uomo nero, lo immaginano già piegato a raccogliere pomodori. Non è possibile. Io ho visto ingegneri nigeriani, in una campagna qua vicino, a raccogliere pomodori. Senza essere pagati».
Ma c’è pure chi a Foggia ci è venuto di proposito. «Quando arrivai in Italia, a Milano, tre anni e quattro mesi fa, un africano che avevo conosciuto mi aveva consigliato di venire a Foggia. Diceva che ci sono tante associazioni che si occupano degli immigrati e in particolare dei richiedenti asilo». Roger è scappato dalla Costa d’Avorio a causa della guerra. La sua domanda di richiesta d’asilo è stata rifiutata, ma non si è perso d’animo. Ha iniziato a frequentare la parrocchia di Borgo Mezzanone, ha imparato l’italiano, che parla perfettamente. Ha seguito un corso di informatica, uno da restauratore. Attualmente sta imparando l’inglese: «Mi piace studiare e migliorare». Collabora come mediatore culturale al C.A.R.A., mettendo al servizio degli altri immigrati la sua esperienza. Si adopera per la divulgazione dei problemi degli immigrati, perché il più possibile si sappia della loro realtà. È portatore di un messaggio di pace e di speranza, consapevole che un incontro presuppone una volontà reciproca di avvicinamento.