La fotografia come fonte storica per lo studio del secolo appena trascorso è un tema che meriterebbe maggior approfondimento.
Soprattutto in un territorio come il nostro. Provare a narrare la storia del Novecento attraverso la fotografia è esercizio delicato, principalmente perché l’immagine fotografica non si può considerare, come altre fonti storiche, fonte oggettiva ma nasce e spesso resta testimonianza personale, quasi intima. La fotografia è un’interpretazione della realtà e quindi restituisce una visione ed una lettura storica assolutamente in soggettiva. Conseguentemente anche la fotografia va letta criticamente, confrontata, soppesata, interpretata e, come le altre fonti storiche, necessita di tutela e adeguata conservazione.
La valorizzazione degli archivi fotografici è fondamentale per tentare di narrare il secolo appena trascorso attraverso le immagini. Nella nostra regione non mancano archivi fotografici di una certa importanza ma il problema di fondo è che, prevalentemente, si tratta di archivi privati, di difficile consultazione, scarsamente fruibili non solo per lo storico ma anche per un pubblico più vasto realmente interessato ad una visione della fotografia, per così dire, storica.
A livello regionale e locale bisognerebbe fare sforzi maggiori per la ricerca, la salvaguardia e la diffusione degli archivi fotografici privati. In una parola e senza tante perifrasi, occorrerebbe rendere pubblico, in modi consoni, ciò che è ancora soltanto privato. Con tutte le tutele adeguate per il privato.
Pubblico/privato: tema intrinsecamente ostico e che forse andrebbe rimeditato, adeguato ai tempi e ricollocato al giusto posto, quasi demitizzato.
Personalmente, essendo un appassionato di fotografia, mi accorgo di alcuni paradossi che sono certamente figli del nostro tempo ma possono essere indicativi per una via da seguire, un progetto da realizzare. Viviamo in un’epoca tecnologicamente avanzata (forse non ci rendiamo nemmeno conto di quanto lo sia) che permette il salvataggio, l’archiviazione, il recupero e la valorizzazione di reperti fotografici con sistemi elettronici impensabili fino a pochi anni or sono. Ebbene – e qui davvero si ragiona per paradossi – spesso si chiede ai programmi di ritocco del computer di antichizzare una foto attuale, renderla vecchia… un controsenso apparente in un’epoca di modernità assoluta, quasi obbligatoria. Evidentemente c’è fame di foto-storiche, si sente il bisogno di un recupero della nostra memoria, filtrata attraverso l’immagine fotografica, veicolata da fotogrammi che suscitano un interesse che va ben oltre un viraggio seppia.
Le fotografie dell’archivio della mia famiglia non hanno mai avuto necessità di subire un trattamento di antichizzazione artificiale: antiche lo sono già, per loro natura e storiche lo sono diventate con il trascorrere dei tempi e la cura per la loro tutela. Testimoniano un aspetto della memoria storica della famiglia che si tramanda di generazione in generazione unitamente a carte, documenti, mappe, alberi genealogici, archivi cartacei, testamenti, liti giudiziarie, atti di matrimonio, compravendite, donazioni e corrispondenze di ogni tipo. Tutto quello che fa ed è la storia di una famiglia numerosa, complessa e sfaccettata come quella dei Di Loreto. Fin dal 1680. In questa mole di documenti, puntigliosamente ma isordinatamente conservati e passati di mano, le fotografie hanno sempre rivestito un’importanza se non del tutto preminente, quanto meno appariscente; una sorta di “punta di iceberg” facilmente comprensibile ai più. Le case della mia famiglia hanno avuto sempre una presenza ossessiva di foto, in ogni spazio disponibile: cospicui pacchi di fotografie datate, virate seppia e gelosamente conservate in smisurati cassetti senza fondo di vetusti comò con il piano in marmo, oppure appese ai muri in piccole cornici dorate, minuscoli ovali a salvaguardia di una memoria. Erano le classiche foto di casa che costituivano soltanto l’avanguardia del ben più corposo archivio di immagini che avrei, col tempo e con fortuna, rinvenuto quasi per intero.
Col tempo, che cancella e distrugge tutto, occorreva un volontario che salvasse dal degrado tale materiale visivo, tutelando e valorizzando la memoria storica dei Di Loreto. Che poi quest’anima pia che si è accollata tale compito fosse, tra l’altro, un appassionato di fotografia, è elemento decisivo. Appartengono al suddetto archivio fotografico pacchi interi di lastre in vetro neppure stampate, che ritraggono gruppi di parenti con abiti d’altri tempi ed in luoghi a me familiari. O anche rigorosi ed accurati bianco/neri di persone totalmente sconosciute ed immortalate in pose di circostanza. Le famose e leggendarie diapositive tridimensionali di mio nonno Edmondo e del suo viaggio con la regia nave Etruria nelle Americhe di inizio secolo. Album fotografici contenenti le testimonianze delle tragedie non solo familiari ma appartenenti ad una nazione intera: due guerre mondiali, le avventure coloniali del ventennio, un paio di terremoti, il fratello di mio padre mai tornato dal fronte russo, lo zio ufficiale che invece scampò a quello albanese. E poi molte, molte e molte fotografie di vita aziendale: pecore, pastori, tratturi, masserie, Puglia e Abruzzo: da sempre, andata e ritorno, due volte all’anno, un mondo in movimento. Transumanza: gli affari di casa insomma. Qualche stagione fa riuscii a ritrovare, quasi per caso e con molta fortuna, uno scatolone di cartone, pesantissimo e miracolosamente integro. Conteneva una quantità spropositata di materiale fotografico di varia natura: pacchi di stampe in bianco/nero di vario formato legate con nastrini colorati; delicate e fragilissime lastre in vetro (6×9 e 9×11), con provini fotografici di riferimento, vetrini stereoscopici in positivo con tanto di visore dell’epoca e buste in carta velina con negativi di pellicola (4×6, 6×6 e 8×11). Era il corpo centrale e più cospicuo dell’archivio fotografico di famiglia, scampato al degrado del tempo più per un caso fortuito che per reale volontà di conservazione.
Ma era quanto accoppiato allo scatolone a vera sorpresa del ritrovamento. Una valigetta in legno a più scomparti, con chiusura a ganci d’ottone che recava un’etichetta intrigante e rivelatrice: La crociera dell’Etruria nelle Americhe e la guerra Italo-turca. All’interno di siffatta valigetta (in verità molto elegante) una ventina di scatolette cartonate dell’epoca perfettamente conservate, contenenti le diapositive tridimensionali scattate da mio nonno durante la missione
oltreoceano della nave Etruria, due album di foto con allegate lastre e negative degli eventi bellici in Libia del 1911/12 ed un diario personale l quale mio nonno affidava pensieri e considerazioni e che fungeva anche da catalogo per buona parte del materiale fotografico. Il prosieguo della storia è stato consequenziale. Vi sono occasioni e circostanze nelle quali memorie strettamente private possono e devono essere rese pubbliche. E dato che un popolo senza memoria è un popolo senza futuro, ecco che il viaggio della nave Etruria nelle Americhe di inizio secolo è stato rivelato al pubblico tramite una mostra fotografica (con allegato catalogo) in due cicli di esposizione presso il Museo del Territorio di Foggia. Nel centenario della guerra italo-turca, il materiale fotografico che in questa occasione è stato restaurato e ristampato per essere riproposto pubblicamente, completa storicamente la vicenda di mio nonno Edmondo, imbarcato dapprima sulla nave Etruria ed in seguito sulla regia nave Sicilia ed ha l’intento di raccontare per immagini originali una pagina di storia italiana in parte dimenticata e forse considerata di minor importanza. Ma una storia privata, seppur affidata a fotografie di famiglia recuperate in una vecchia valigia, può divenire memoria collettiva per un’intera nazione ed essere d’insegnamento per le nuove generazione che, forse, di Tobruk, di Bengasi, di Derna o della Cirenaica e della Tripolitania non hanno mai sentito parlare…purtroppo neanche a scuola.
È l’intento principale affidato alle fotografie esposte presso il Museo del Territorio.
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